A Kabul l’artista Shamsia Hassani disegna l’incubo di dover nascondere il corpo e la gioia del vivere sotto gli abiti. Donne costrette alla modestia, in nome di una estrema devozione sotto molteplici strati di vestiti (fino a 27 strati), costrette ad essere invisibili.
Secondo una ricerca condotta dalla sociologa israeliana Tamar El Or, le donne talebane “scelgono di rimanere a casa il maggior tempo possibile, creando nell’abitazione un’atmosfera che assomigli a quella di una tenda”. Inoltre, “vestirsi a più strati significa emulare o rivivere come le figure materne presenti nei testi biblici.” Bruria Karen a capo di un movimento di ‘Ebree sotto il burqa’ era arrivata ad indossare anche 27 indumenti alla volta. Non molto diversa da ‘La mistica della femminilità’, un deliberato progetto di persuasione e condizionamento – scrive l’autrice Betty Friedan negli anni sessanta – che ha portato milioni di americane a segregarsi nei sobborghi residenziali americani. Rinunciando ai loro sogni di realizzazione professionale, per dedicarsi esclusivamente alla maternità e alla vita casalinga.
Quanto all’Arte, ogni qual volta che le artiste riscuotevano celebrità venivano lentamente accantonate, epurate – scriveva Lea Vergine in ‘L’altra metà dell’Avanguardia’. Che alcune si sono auto emarginate a favore dei loro compagni. Che sono state il ghetto che non colloquia con la città e che di questa opera tragica, per questa provincia di ingegni, come curatrice avrà sì quel disagio di “resistenza” ma affronterà il tema del terribil sesso pur non trovandovi, a parità di livello qualitativo, con gli artisti, diversità alcuna.
E chiosa tuttavia Lea: “più si raccoglie il vissuto meno si rischia di vedere cancellate le artiste dal futuro”.
Così l’orizzonte e tempo come varchi, ostruzioni, accessi e difese si delineano.
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